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Il percussionista cosentino Leòn Pantarei in Commissione cultura

leòn pantarei premiato dalla commissione cultura
09 mag 2013

Personalità quasi sciamanica, grande affabulatore e musicista colto, portabandiera della contaminazione tra linguaggi musicali di diversa estrazione.
Si potrebbe continuare all’infinito per delineare la figura di Leòn Pantarei, al secolo Leonardo Vulpitta, percussionista cosentino che se si dedicasse di più al jazz e meno ai suoni fascinosi di derivazione mediterranea e mediorientale sarebbe, per stare ai batteristi più in voga del jazz italiano ed internazionale, un Roberto Gatto con diversi chili in meno o un Horacio El Negro Hernandez con il quale presenta delle affinità che lo rendono molto vicino alla musica e alle suggestioni cubane.
Con queste credenziali e dopo trenta dischi e un percorso musicale che lo ha portato a spaziare dal pop al reggae, dalla musica dub al raggamuffin anni ’90, fino ai progetti più recenti, maturati nell’alveo meramente jazzistico, logico attendersi anche un’attenzione delle istituzioni della città nella quale è nato e cresciuto.
Ci ha pensato la Commissione cultura di Palazzo dei Bruzi, presieduta da Claudio Nigro, a rendere il giusto tributo alla sua attività artistica, riservandogli una calorosa accoglienza culminata nell’attribuzione di un premio al complesso del suo percorso di musicista.
Ad introdurre l’ospite, il consigliere Mimmo Frammartino che ne ha ricordato i primi successi, quando, negli anni ’80, da Assessore allo spettacolo, chiamò Vulpitta per coinvolgerlo, con uno dei suoi concerti, in una delle edizioni dell’Estate in città. “Il tempo ha poi dimostrato quanto talento ci fosse in quel giovane di belle speranze – ha sottolineato Frammartino - tanto da meritare tutti gli apprezzamenti nei quali si è prodotta negli anni la critica colta del panorama musicale italiano.”
Per Frammartino “Vulpitta trasmette emozioni di grande respiro”. Ne ha ricordato ancora il premio attribuitogli dal referendum JazzitAwards 2012, ideato dalla rivista diretta da Luciano Vanni, che lo ha incoronato primo tra i percussionisti e collocato tra i dieci migliori strumentisti italiani, e ancora le collaborazioni con Pino Daniele (ai tempi del gruppo Orixas, creatura primigenia di Vulpitta) e con Mariella Nava, Mango e Teresa De Sio che Leòn Pantarei affiancò a Cosenza in un memorabile concerto di “Invasioni” dal titolo “La notte del Dio che balla”.
Se l’arte della percussione, Leòn Pantarei l’ha appresa da Nanà Vasconcelos, per il resto ha mangiato, come suol dirsi, pane e tamburi per tutto il tempo in cui ha deciso e poi realizzato di fare l’artista, con impegno, sacrificio e dedizione assoluta.
Uno dei pochi in grado in tutta Italia di suonare le tablas indiane, difficile strumento al quale l’ha instradato un altro grande come Shalil Ustad Al Shankar, per Pantarei Leòn “suonare le percussioni è davvero tutto. E’ sensualità, capacità di immergersi nella diversità delle culture, dar vita ad una sorta di koinè dei dialetti espressivi.”
E, in effetti, Leonardo non riesce a stare lontano dalla parola. Nei testi delle sue canzoni c’è sempre una specie di impasto, un mantra ricorrente, una sorta di esperanto che mescola i dialetti cosentino, catanzarese e reggino, tenendo fuori quelli della Calabria citeriore.
La musica e la parola diventano per lui “il mezzo per raccontare la storia in maniera diversa”. E su questo terreno Leòn Pantarei può discettare a lungo, così come fa abitualmente con i giovani percussionisti che seguono i suoi seminari o i workshop su come nasce il suono. Da lasciarli quasi a bocca aperta, quasi come ha fatto in commissione cultura, affascinando i componenti dell’organismo consiliare con i suoi discorsi sulle specificità dei singoli strumenti o sulle tecniche percussive che adopera, al pari dei fidati allievi Vanessa e Ciccio che hanno voluto condividere con lui l’incontro in commissione.
Seduto in platea Checco Pallone, anch’egli percussionista cosentino, tra le colonne dei “Dedalus”, che ha un legame empatico e di vecchia amicizia con Pantarei Leòn e che dovrebbe sfociare in un disco che dovrebbe vedere la luce, difficoltà produttive a parte, a breve.
Il legame simbiotico tra i due è stato messo in luce nell’intervento del Vice Presidente della Commissione cultura Maria Lucente che dopo aver, con simpatia ed emozione, seguito gli inizi di carriera di Vulpitta, lo ha sempre più apprezzato “per aver dato sfogo alla sua innata creatività grazie a studi approfonditi, ad un bagaglio culturale solido e ad una grande serietà. Solo così potevano arrivare i risultati che sono venuti – ha concluso la Lucente”.
E’ ancora Leòn Pantarei a dire la sua sulla musica prima che finisca l’incontro. “La musica è corazòn, pensiero, danza, emozione, e poi ha un’enorme potenzialità evocativa, quasi una psichedelìa e il compito di riuscire a trasmettere nella maniera più semplice l’illusione, il senso di mistero, di Sud e di culture che si mescolano. Nell’infinità delle mie esperienze il mio mestiere è quello di scrivere romanzi con il ritmo di un tamburo”.
E via ad una carrellata di immagini che suggella l’incontro a Palazzo dei Bruzi.
Sono le immagini che si riferiscono ad un concerto del progetto più recente di Leonardo Vulpitta che ha dato vita alla formazione etno-jazz degli “Omparty” di cui Pantarei Leòn è cofondatore insieme al chitarrista Pasqualino Fulco e della quale fanno parte anche il sassofonista Alberto La Neve e il contrabbassista Carlo Cimino.
Le altre immagini fissano, invece, una vera e propria sarabanda al Piccolo Teatro dell’Università in cui allievi, docenti ed intellettuali della più diversa estrazione vengono “traviati” da Leòn sulla strada di un ammasso di suoni apparentemente assordanti, ma celebranti una sorta di rito liberatorio dal quale sono poi scaturite le premesse per l’organizzazione del lavoro futuro. Una specie di rave in stile “Les Tambour du Bronx”, dove anche le pentole e le padelle alimentano da par loro il set percussivo.
















 

Autore: Giuseppe Di Donna